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Disco Ruin” è il titolo del documentario scritto e diretto da Lisa Bosi e Francesca Zerbetto, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2020 e prossimamente in onda su Sky Arte. Un viaggio lisergico attraverso la parabola decadente delle discoteche che hanno fatto la storia della club culture italiana, dai night degli anni '60 agli after-hours dei 90's. Ora quei luoghi di aggregazione fuori da ogni schema e ordinaria concezione non esistono più; delle “cattedrali del divertimento” restano solo le strutture in rovina, abbondonate come astronavi fuori uso in tutto il territorio italiano. Ed è proprio dalla fascinazione di queste rovine che nasce l’esigenza di narrare uno spaccato di società di cui molti ignorano tuttora l’esistenza. Un mondo parallelo che non è mai stato per tutti, anzi, in cui la “diversità” è stata il passe-partout per varcare le porte di questi luoghi magici.

Il mondo della notte culla della creatività

Le testimonianze raccolte da “Disco Ruin” accentuano il fatto che il popolo della notte sia stato per anni come un’unica grande famiglia, con dinamiche incomprensibili ad uno sguardo esterno. Un mondo a sé, dove tutti conoscono tutti e gli stessi volti si ritrovano in ogni parte d’Italia. Notti senza fine, che durano interi weekend, passate a rincorrere l’alba a centinaia di km di distanza per partecipare a un altro party e poi un altro ancora.

«È d’obbligo l’abito scuro, il trucco pesante, lo sfarzo, soprattutto lo sfarzo», così recitava l’invito all’apertura del Plastic di Milano nel 1980, esclusivo luogo di ritrovo di creativi e artisti per passare la notte in un posto in cui la libera espressione del corpo, della sessualità e dell’individualità non era solo lecita, ma praticamente necessaria per potervi accedere. Uno spaccato di realtà straordinaria e lontanissima dal quotidiano, che è stato fonte d’ispirazione per musica, arte e moda. Jean-Paul Gaultier, Vivienne Westwood, Andy Warhol, Keith Haring e tantissimi altri artisti internazionali hanno frequentato il Plastic, l’Ethos Mama Club, il Cocoricò e le discoteche italiane che hanno fatto la storia del costume per quattro diverse generazioni. L’abito era un manifesto. La libertà d’espressione era il motore della creatività. La musica selezionata dai dj era l’anticipazione delle nuove tendenze da passare in radio. Non c’è stato nessun altro luogo in grado di concentrare insieme così tante forme d’arte come la discoteca.

Dagli anni '60 ai '90: l’ascesa e il declino delle discoteche

Il viaggio di “Disco Ruin” inizia nel 1965, anno di apertura dello storico Piper a Roma, arrivato anche a Torino nel '66. In quegli anni gli architetti si rendono conto che il ballo ha bisogno di un luogo dedicato, un contenitore di socialità e di quella speciale creatività sempre in bilico tra avanguardia e kitsch. La musica beat invade le piste e le gonne vengono arrotolate nei bagni dei locali diventando sempre più corte. «Il Piper è stato il Big Bang», queste le parole del dj e produttore romano Corrado Rizza in "Disco Ruin", un’immagine esplosiva che ben riesce ad evocare la rivoluzione di costume in atto negli anni '60.

Un decennio più tardi, i dj iniziano a mixare i pezzi, abbandonando la vecchia concezione di alternanza tra brani lenti e shake. A metà degli anni ’70, direttamente dall’America, in Italia arriva la disco music. Ispirandosi alle discoteche statunitensi, nel 1975 a Gabicce apre la Baia degli Angeli (con due anni d’anticipo rispetto al celeberrimo Studio 54 di New York). L’importanza dell’immagine diventa sempre più chiara nel mondo della notte, e così anche il concetto di comunicazione legata ai club.

Gli anni ’80 sono la culla dell’edonismo: lo stile caratterizzato dagli eccessi, la liberazione dal conformismo e l’eccentricità portano alla nascita dei club nell’accezione moderna del termine. Il riconoscersi e farsi riconoscere come “diversi” dà accesso a luoghi in cui tutto è possibile come il Plastic di Milano o il Kinki di Bologna. La discoteca non è solo musica ma pura performance ed estro, nonché luogo in cui annullare ogni distanza di classe sociale.

Dopo il successo dell’italo disco è di nuovo l’America a portare nel nostro Paese una nuova rivoluzione culturale con l’house music e la techno. Negli anni ’90 i dj diventano idoli da seguire su e giù per l’Italia, in grado di far ballare i giovani per tutto il weekend senza tregua e di influenzare il mercato discografico a livello internazionale.

Ma se da un lato c’è la luce della creatività, dell’aggregazione sociale e dell’accettazione (se non celebrazione) del diverso, dall’altro l’oscurità del mondo della notte deve rispondere ai suoi eccessi fatti anche di alcool, droghe e problemi di ordine pubblico. Una dopo l’altra queste storiche discoteche chiudono e diventano contenitori vuoti, abbandonati a se stessi, rovine testimoni di sperimentazioni totalmente fuori dal comune. Il luogo dell’incredibile torna ad essere ordinario. Sulle immagini di queste rovine “Disco Ruin” non può che farci riflettere sull’eredità lasciata da quei luoghi d’espressione in un presente in cui la norma è “vietato ballare”.

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